CENTRO FOTOGRAFIA TORINO

30/05/2019 | Mario Cresci | Nello Specchio della Memoria | Ambienti, ritratti, autoritratti

Comprendere è sempre, per chi cerca di attuarlo davvero nel suo tempo, comprendere il presente. La riflessione sul passato è in realtà, ogni volta, interrogazione e ricerca intorno al momento attuale. Ammesso che si voglia proporre qualcosa di vitale, possibilmente utile e abbastanza aperto all’interpretazione da non lasciarsi costringere nell’ambito di un superficiale adeguamento alle mode, alla novità per la novità.
L’idea di questa mostra nasce da una serie di considerazioni intorno al concetto di memoria in quanto specchio dell’esperienza e alla pluralità di atteggiamenti che l’argomento sollecita.

 

Le immagini di Mario Cresci qui presentate, e in generale tutto il suo lavoro sulla fotografia come segno e interpretazione documentale, ci sembrano un veicolo privilegiato per un possibile approfondimento di questi temi.

 

Alla fotografia in quanto riflessione della e sulla memoria, si connettono le ricerche svolte da Mario Cresci tra gli anni ‘60 e ‘70, per lo più in Basilicata e in parte in Lazio.
Le immagini realizzate in quel periodo ci parlano da un contesto a prima vista lontanissimo, un mondo fatto di volti, gesti, interni di case ed utensili connessi ad una forma di vita che non  appartiene più al quotidiano della maggior parte di noi, abitanti di un mondo altamente civilizzato, almeno in senso tecnologico.
Ambienti poveri e modesti oggetti d’uso in alcune immagini, l’esibizione di un “lusso” borghese, ingenuamente rivisitato e divenuto per noi quasi poetico (le tappezzerie “auliche”, il rivestimento del salotto buono, conservato con cura reverenziale) in altre.
Quasi sempre, un mondo di povertà dignitosa a Tricarico, in certe occasioni, a Barbarano Romano, l’eco distorta di una società altra, le cui superfetazioni risuonano da una distopica lontananza.

 

Tutto questo è certo importante e può essere indirizzato ad accrescere l’empatia e la comprensione nei confronti del nostro passato, forse a riconsiderarne sotto un’altra luce alcuni aspetti dimenticati.
Non è però per un tale tipo di sguardo, antiquario o nostalgico, che queste fotografie vengono proposte: al contrario, esse sono qui per richiamare l’attenzione sulla loro profonda attualità, che è poi quella di un problema e forse, così vorremmo sperare, di una possibilità.

 

Di solito l’attualità non viene considerata profonda, sembra invece qualcosa che può essere utile conoscere adesso per parlarne senza impegno e che dopo pochissimo tempo non è più “spendibile”. Allora la si può dimenticare, oppure inserire cronologicamente in una serie di altre ex attualità, per dare motivo di esistenza e continuità alla storiografia, che verrà a sua volta studiata ed esibita dagli specialisti del settore, senza coinvolgere in prima persona più nessuno.

 

Il lavoro di Mario Cresci, l’atteggiamento che ha motivato la sua scelta di recarsi in certi luoghi e ritrarre un certo genere di persone e di ambienti è di altro tipo.
Egli ha documentato la fine di un mondo per proporlo alla nostra riflessione di lungo termine.
E’ quindi possibile parlare, in senso proprio, di attualizzazione.

 

Di fatto, qualcosa di ancora impensato ci interroga dalle sue immagini, così come in generale dall’indagine del nostro passato, prossimo e remoto, solo che abbandoniamo alcuni luoghi comuni, connessi al pregiudizio del moderno.
In realtà, non abbiamo ancora nemmeno iniziato a comprendere ciò che è accaduto con l’avvento di quell’insieme di vertiginosi cambiamenti che chiamiamo “modernità”, e solo da poco siamo forse in grado di distaccarcene in misura sufficiente da cominciare a vederla.
In questo senso, guardare al passato significa al contempo riflettere sul presente o meglio, accedere a quella continuità interpretativa che è requisito indispensabile di ogni reale consapevolezza critica.

 

Che cosa ha significato, per un artista nato in provincia di Genova (Chiavari 1942) e diplomato al Corso Superiore di Disegno Industriale di Venezia, la decisione di lasciare il suo stile di vita e la sua quotidianità per calarsi in un mondo altro, che la modernità stava velocemente cancellando?
Dopo un primo viaggio a Tricarico (Matera) tra il ‘66 e il ‘67 con il gruppo di urbanistica veneziano “Il Politecnico”, Mario Cresci tornerà più volte in Basilicata e nonostante le numerose mostre in Italia e all’estero, stabilirà la sua abitazione a Matera per quasi vent’anni.
Nel contesto italiano, ancorato a dibattiti di retroguardia sulle valenze estetizzanti della fotografia in contrapposizione al suo valore strettamente documentario, oppure indirizzato a negare l’esistenza di una sua qualsivoglia “artisticità”, Cresci si presenta, sin dalle prime ricerche veneziane, come un operatore visivo a tutto tondo, dedito ad analizzare i problemi dell’immagine al di là delle separazioni di genere o di scuola.

 

Impiegando le sue competenze in ambito fotografico, grafico, del design e in generale la sua conoscenza degli strumenti di comunicazione iconica, una volta giunto in Basilicata egli avvia una ricognizione diffusa, che include paesaggi, usanze, ambienti, utensili e saperi.
Il tutto a partire da una sorta di doppio sguardo.
Avviene infatti che dal contesto osservato l’indagine rimbalzi su chi la svolge, immettendo nella riflessione intorno ad una cultura in via di sparizione, la cultura che la sta documentando, e insieme a questa il ruolo dell’artista e della sua operazione, il significato e le finalità del suo impegno.

 

Quando si esaminano le radici di una condizione di vita, proprie o altrui, si è ormai superata quella soglia del sentire in cui esse risultavano implicite ed erano spontaneamente abbracciate.
Documentare una cultura implica sempre anche di cancellarla, conservandola come “resto”.
E’ forse questa paradossale consapevolezza che induce Cresci all’auto-coinvolgimento degli autoritratti, sovente ambientati nei medesimi luoghi delle sue osservazioni.
L’interesse antropologico acquisisce così quella valenza auto-referente che dovrebbe costituire l’irrinunciabile risultato di ogni avvicinamento all’altro: non quindi un atteggiamento logo ed ego-centrato a partire da cui, ma una posizione dislocata, dove a porsi in evidenza, illuminandosi a vicenda, sono i differenti approcci al vivere, al significare, al non significare.
In relazione a questo doppio statuto della documentazione, si pensi, ad esempio, al confronto tra artigianato tradizionale e produzione industriale implicito nelle Misurazioni e nelle Silhouettes di oggetti vernacolari: estrapolandoli dal loro contesto ed esponendoli ad uno sguardo analitico, Cresci, formato ad una scuola di design, li giudica a partire da nuove competenze e insieme li tematizza in quanto prodotti di un maniera diversa del fare e del fruire.

 

Accanto alla minuziosa ricognizione etnografica e pur a fronte di un approccio anti-romantico e tendenzialmente distaccato, è possibile rilevare un’ulteriore valenza del lavoro fotografico di questo periodo, connessa ad un ambito allargato e più universale del pensiero.
Al rimbalzo dell’interrogazione antropologica corrisponde, come per un’inevitabile conseguenza, quello della domanda esistenziale intorno all’impermanenza dell’umano, alla transitorietà di ogni esperienza individuale.

 

Nei Ritratti mossi (una ricerca del ’67, poi ripresa nel ‘74), lo stagliarsi degli oggetti negli ambienti, la loro condizione un poco più durevole e a tratti consolatoria, si contrappone all’instabilità dei volti, cancellati dal loro muoversi e vivere in quei medesimi spazi.
Nei Ritratti reali (1972), l’istante dello scatto si dilata nel rimando alla memoria delle generazioni precedenti, che sul filo delle fotografie mostrate e poi isolate rinvia ad una comune esperienza del provenire.
E’ così che l’immediatezza della registrazione fotografica, l’istante di luce senza profondità dello scatto meccanico diventano indice del contingente e, per antitesi, di un’immemorabile durata.
La connotazione temporale intrinseca ad ogni fotografia esplicita qui il suo paradosso di essere solo sempre al presente e insieme fuori da ogni tempo.
Così, il doppio sguardo di cui sopra si conferma nell’esibizione di un passato che si specchia e continua in noi, a nostra volta immessi nel medesimo flusso dell’apparire, in una storia-non storia che non conosce i confini delle differenze culturali e antropologiche e per questo si presenta come il più radicale motivo di un vicendevole riconoscimento.

 

Infine la questione del segno, che può essere considerata il filo conduttore dell’intera opera di Mario Cresci, dalle prime sperimentazioni della “Geometria non euclidea” (‘64) alle installazioni di “In scena” (1996-2002), dalla serie “Le Cave” (Matera ‘74-2001) ai “Rivolti” (2013-2016).
La sua ricerca è di continuo abitata dalla lucida consapevolezza, un’ossessione quasi, dell’impossibilità di documentare in maniera obiettiva e diretta ciò che chiamiamo “realtà”, dall’idea che la fotografia, in quanto scrittura di luce, sia la pratica artistica più adatta a testimoniare della nostra inattitudine costitutiva a valicare la rappresentazione-traduzione del mondo in percetti, parole, immagini.
In relazione a questi temi, Cresci ha fatto cenno in diverse occasioni al pensiero di Peirce, Merlau Ponty, Sini, vale a dire ad un filone della filosofia novecentesca che si connette, in maniera più o meno diretta, alla fenomenologia.
Esiste un mondo precategoriale che si situa al di qua di ogni codice e risulta quindi intraducibile.
Ad esso si affianca, sovrapponendovisi e in parte cancellandolo, l’insieme delle intenzioni e delle interazioni linguistiche e comunicative in senso lato.

 

Operare artisticamente dopo la modernità significa allora, anche, interrogarsi su questa condizione di consapevolizzazione del distacco e cercare di corrispondervi tramite forme e gesti che ne esibiscano la problematicità, rintracciandone possibilmente ascendenze e significati.

 

Questo forse, nell’ambito della ricerca multimediale di una vita, l’intento di Mario Cresci, perseguito anche nel settore dell’attività didattica (altra costante del suo impegno), indirizzata sin dagli anni di Matera a sviluppare la conoscenza dei più diversi strumenti impiegati per comunicare visivamente, a scandagliarne la duttilità e l’ambiguità semantica.

 

Per riassumere, il tentativo sempre di nuovo reiterato (tramite il disegno, la fotocopia, l’installazione, la fotografia, il film) di circoscrivere criticamente e abbracciare empaticamente quell’inappariscente sfida quotidiana in cui consiste il guardare.

 

(Elisabetta Buffa)