(Immagine soprastante da: “Luigi Ghirri – Polaroid – Opera Completa”, Ed. Baldini & Castoldi, 1998)
Che cosa significa prestare attenzione a ciò che guardiamo, e ancora prima, che cosa propriamente guardiamo?
“La fotografia è essenzialmente un dispositivo di selezione e attenzione del vostro campo di attenzione […] semplicemente si tratta di attivare un processo mentale, di attivare lo sguardo e cominciare a scoprire nella realtà cose che prima non si vedevano, anche dando agli oggetti, agli elementi della realtà un altro significato. Attivare un campo di attenzione diverso”
Come risulta da queste parole, tratte dalle sue “Lezioni di fotografia”, Luigi Ghirri indica la funzione e il significato della fotografia nel suo poter diventare disciplina dello sguardo e, per questa via, apertura al nuovo.
Si tratta di un’attitudine verso la percezioneche si accompagna ad un particolare atteggiamento cognitivo.
In riferimento allo specifico legame che la fotografia intrattiene con il mondo esterno, questo esercizio dell’attenzione è infatti associato all’idea che una visione autentica delle cose possa, e anzi debba accompagnarsi alla consapevolezza del loro essere, per noi, il risultato di una rappresentazione e dunque implichi il superamento dell’abituale idea di realtà obiettiva.
Nel lasciar emergere “… quello strano e misterioso equilibrio tra il nostro interno e il nostro esterno”, colui che osserva giunge a mettere da parte la sua più immediata soggettività e il suo particolare vissuto, per acquisire una sorta di disponibilità al puro accadere.
“Dimenticare se stessi non significa affatto porsi come semplici riproduttori ma relazionarsi al mondo in maniera più elastica, non schematica […]. Credo che questa forma di elasticità sia necessaria per avere accesso alle immagini e rapportarvisi in maniera innovativa”.
Avviene così che la banalità, persino la disarmonia dell’ambiente trovino una strada per comunicarci qualcosa che va al di là della loro contingenza e della nostra ricerca di bellezza e di significato: come se, in qualche maniera, bellezza e significato potessero emergere dalla resa all’evidenza della manifestazione.
Non si tratta però dell’abbandono ad un atteggiamento puramente contemplativo, o al vagheggiamento di mistici approdi che ci distaccherebbero dal qui e ora dell’esperienza ordinaria, poiché è proprio nel quotidiano e nel banale, quando li si sappia cogliere ed esibire nella giusta luce, che può emergere il non ancora visto.
E il discorso sulla luce assume in tale contesto un’importanza fondativa.
L’esercizio di osservazione del reale comportava per Ghirri l’attesa e la traduzione in immagine di un certo tipo di sensazione visiva, giudicata al contempo semplice ed esaustiva.
Egli tornava più volte sui luoghi e pazientemente aspettava che lo spazio “si illuminasse” adeguatamente, in rapporto alla scelta dell’inquadratura e all’intento della comunicazione: era importante che la fotografia corrispondesse alla maniera che ogni luogo possiede di offrirsi spontaneamente alla rappresentazione.
Questo affievolimento del soggettivo si è peraltro sempre accompagnato ad un’attenta critica dell’esistente, connessa, solo in apparenza paradossalmente, alla rinuncia dell’intenzione giudicante.
La disaffezione e l’incuria nei confronti dell’ambiente si riflettono, secondo Ghirri, in una progressiva incapacità di relazionarvisi tramite la rappresentazione, una sorta di disordine percettivo che diventa afasia dello sguardo e conseguentemente, impotenza della conoscenza e della prassi.
Il mettere ordine, il ricominciare a pensare per immagini, lasciando che l’ambiente si presenti nella sua massima semplicità, significa allora disporsi a guardare davvero, poiché solo dopo aver visto ed accettato il mondo per quello che è, diventa possibile pensare di cambiarlo.
La dimensione poetica che abita le immagini della seconda parte dell’intenso, seppur troppo breve, periodo della creatività ghirriana, va posta in relazione alla conquista di una nuova cifra estetica, che integra le valenze più propriamente concettuali della prima fase del suo percorso.
Il lavoro metodico e quasi dimesso dell’autore, quel comunicare tramite la serie piuttosto che tramite un’immagine in se stessa seducente ed eccezionale, approda ad un particolare bilanciamento tra accettazione contemplativa dell’esistente ed attribuzione di senso, esercizio critico ed empatia.
Quest’armonia si rispecchia nella disadorna, essenziale bellezza che anima molte delle sue immagini, a partire dagli anni ‘80.
In sintonia con una frase di Jorge Luis Borges, che Luigi Ghiri indicò come emblematica del suo lavoro, le fotografie in mostra testimoniano di questo conseguimento e della possibilità di scoprire, da parte di uno sguardo paziente e profondamente attento, che “non c’è niente di antico sotto il sole” e ogni cosa può partecipare di una nuova luce…e un nuovo incanto.
Elisabetta Buffa